Il teatro anarchico e feroce di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è popolato da un universo di figure ora perturbanti ora comiche, portatrici di una risata sana, intelligente, che cola dentro come una medicina dal retrogusto aspro; perché è liberatorio ridere dell’altro, ma un po’ meno accorgerti che la risata rimbalza su di te. Vado a incontrarli prima di uno spettacolo, mentre la sala si va riempiendo; supero con una punta di apprensione la soglia del camerino giacché mi aspetto che Rezza sbuchi da un cassetto tirando fuori la lingua. Invece li scopro di una cordialità disarmante, amichevole. Lui, arguto e tagliente in ogni parola, prepara i costumi, mentre la Mastrella, poggiata a uno specchio, fuma tranquilla una sigaretta.
Allora, come va la tournée? Quattro lavori in giro per l’Italia e un solo attore.
REZZA: Beh, la sala è sempre piena, il pubblico è soddisfatto, direi bene.
I vostri spettacoli ricevono ovunque recensioni molto favorevoli, però a me sembra che gli spettatori accorrano soprattutto per una specie di passaparola segreto.
MASTRELLA: Abbiamo un pubblico più costante che ci frequenta da anni, ma oramai vengono anche parecchi ragazzi sotto i trent’anni; forse ci conoscono per merito di Internet.
Le vostre origini nel 1988 in televisione.
REZZA: Con Il piacere dell’estate, l’esordio assoluto. Poi nel ’96 e nel ’97 facemmo delle brevi intrusioni nelle trasmissioni della Dandini su Raitre. Ma il lavoro più succoso è stato I Troppolitani, interviste a corpo libero prese un po’ ovunque, sull’autobus, alla stazione, all’ippodromo, al cimitero. Fu un momento creativo importante, che poi è confluito nello spettacolo Fotofinish.
L’anno scorso avete riproposto Io, un testo del 1998, quest’anno Pitecus del 1995, due lavori acidi e pungolanti. Come esce lo spettatore dal teatro?
REZZA: Come è entrato, sulle gambe e un po’ barcollante. Alcuni spettacoli sono aggressivi perché restituiscono l’aggressività della vita reale, che a volte la scrittura tenderebbe ad attenuare.
MASTRELLA: Se il pubblico si prende qualche “schiaffo” è perché i nostri temi non si consumano con l’attualità, ma mettono in gioco la natura umana coi suoi desideri oscuri e viscerali, mascherati nella tensione tra l’individuo e la conformità.
Come funziona la vostra collaborazione? Pensate e scrivete assieme?
MASTRELLA: Noi non lavoriamo mai a quattro mani ma ognuno sviluppa la sua idea, poi ci confrontiamo; più spesso ci scontriamo. Io preparo lo spazio secondo una mia intuizione, Antonio ci mette dentro i personaggi per come “riceve” l’idea dello spazio.
REZZA: Quando non siamo dello stesso avviso seguiamo una regola molto razionale: con un sì e un no prevale il no, se una cosa non soddisfa pienamente tutti e due, si toglie.
C’è differenza tra le reazioni del pubblico tra città diverse, tra metropoli e provincia?
REZZA: In qualche caso sì. Le differenze si vedono soprattutto nei momenti di tensione alta, dove ognuno scarica le paure e le nevrosi che sente più vicine. Nello sketch del nanetto c’è un personaggio che si sposta in una zona d’ombra della scena e si rivolge “fuori campo” al pubblico. In Sicilia ridono quando dico «faccio una strage!», a Milano, dove qualcuno ha già dimenticato piazza Fontana, ridono quando dico «faccio carriera!». Nel momento della risata di pancia devi raggiungere il tabù, l’immaginario profondo.
Voi avete fatto anche della sperimentazione sul linguaggio cinematografico.
MASTRELLA: Nel 2002 girammo Delitto sul Po che era senza sceneggiatura, e fu distribuito nelle sale. Poi siamo andati oltre e ne abbiamo fatto un altro ancora più spinto, senza sceneggiatura, senza set e senza montaggio. Siamo alla ricerca di un produttore coraggioso.
REZZA: Al contrario, il nostro ultimo lavoro teatrale, Bahamut, è montato come un film.
V’importa se il pubblico capisce una cosa diversa da quella che avete pensato?
REZZA: (si accende) È fondamentale che tra attore e spettatore non s’instauri un rapporto didattico! A volte qualche spettatore viene a raccontarci quello che ha capito, come se fosse tenuto a risolvere un quiz, ma il teatro non è questo!
MASTRELLA: La bellezza di quello che facciamo è anche nel fatto di essere liberi da una narrazione, al limite ti puoi anche distrarre e poi rientri. Noi proponiamo una forma di realtà, senza intenzione educativa: non è necessario “capire” la situazione estetica, lo spettacolo arriva a più livelli e ognuno recepisce gli stimoli a livelli diversi.
Com’è il teatro oggi?
REZZA: Sempre più uguale alla tv, parlo soprattutto della grande produzione, ma anche di certo finto teatro di ricerca. Si raccontano le cose che il pubblico già conosce, e questo è poco interessante, oltre che inutile.
MASTRELLA: Al cinema questo fenomeno è già accaduto da tempo: si proietta sempre lo stesso film in perpetua variante, oppure lo stesso documentario.
Eppure il teatro di narrazione è di gran moda.
REZZA: Ecco, il teatro di narrazione mi annoia in una maniera indescrivibile. Lo spettatore esce com’è entrato, sente una storia, non riceve un taglio estetico, non impazzisce per quello che vede. Un piccolo rituale consolatorio, che secondo me è nella direzione opposta a quella verso cui ricercare.
MASTRELLA: Il teatro “vecchio” non è soltanto quello dei mostri sacri del passato, ma anche quello dei giovani che non fanno nessuno sforzo d’invenzione. Un teatro che racconta e appaga tiepidamente, secondo un cliché largamente prevedibile.
Allora ditemi cosa avete visto a teatro negli ultimi vent’anni che vi ha appassionato davvero.
REZZA: Per quel che mi riguarda molto poco: alcune performance di Bob Wilson, alcuni spettacoli di Carmelo Bene, qualche lavoro di Paolo Poli.
MASTRELLA: Non andiamo molto spesso a teatro. A me piace anche Pippo Dalbono, il metodo con cui lavora e la sua concezione della scena.
La maschera e il corpo. Rezza, lei è più vicino a Totò o a Tati?
REZZA: Chiaramente a Jacques Tati. Totò gioca sul primo piano, Tati sul campo lungo. Io lavoro per sottrazione, per assenza, sul corpo nascosto, Totò sul corpo presente, Tati sul corpo mimetizzato. Il quadro di scena è il contrario della maschera, concentra l’attenzione sul corpo coperto, sulla visione d’insieme.
Lei reciterebbe nel testo di qualcun altro?
REZZA: Intanto solo se Flavia preparasse lo spazio, che per noi è una parte essenziale della drammaturgia. Ho sentito una volta una videoconferenza di Deleuze e lì per lì ho pensato che se avesse scritto un testo teatrale mi sarebbe piaciuto interpretarlo.
Il filosofo della schizoanalisi...
REZZA: Perché, le sembra inadeguato?
Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono in scena dal 13 novembre alla Galleria Toledo di Napoli con Pitecus e dal 27 novembre al Teatro Vascello di Roma col nuovo spettacolo Bahamut.